lunedì 7 ottobre 2013

Transglobal a Via Ettore Fieramosca

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Questo blog nasce da un'iniziativa dell'associazione Transglobal. Vi si racconta un'importante esperienza, che vede l'associazione Dhuumcatu come protagonista.

Per la sua realizzazione ci siamo avvalsi dell'enorme competenza di un amico, lo sceneggiatore e documentarista Guglielmo Enea.

Come per tutte le altre nostre iniziative, l'interesse è quello di raccontare storie di particolare importanza per la vita delle comunità straniere nell'area metropolitana romana.
Gli strumenti usati consentono di produrre una narrazione completa, rispettosa e autentica di una realtà che ha preso avvio quest'estate e che presenta caratteristiche di grande interesse, sotto molteplici aspetti.

Per chi non è mai stato in Via Ettore Fieramosca (da Piazzale Prenestino), potrà risultare utile, per meglio inquadrare quanto verrà descritto dopo, la descrizione data da Stefano Rota, la prima volta che vi si è recato.

"Dove devo venire, Bachcu?"
"In via Ettore Fieramosca, da Piazzale Prenestino. Passa sotto il ponte della ferrovia e sulla destra vedrai un campo" (Il desolato triangolo rappresentato nella mappa, anche se va detto che adesso i campetti sono asfaltati, n.d.b.).

Come credo molti abitanti di Roma, non avevo mai sentito nominare quella strada. La cerco velocemente su Google Maps, mentre sono al telefono con Bachcu, e la individuo sulla sinistra della Prenestina, provenendo da Porta Maggiore.


Immagine mappa


Sceso dal 19, mi incammino lungo una strada di quelle che nessuna donna vorrebbe percorrere da sola dopo il tramonto. Oltre il ponte della ferrovia, lo scenario che si presenta è ancor più desolante: ferrovie a sinistra, destra, davanti e sopra. Niente case, ma solo veicoli che passano velocemente in una strada che non è neppure possibile attraversare, come a sottolineare l'inutilità di recarvisi a piedi.

In mezzo a tutto questo, uno spazio che, a prima vista, appare completamente abbandonato: erbacce, rifiuti, un cancello, di cui chiunque, vedendolo, si domanderebbe l'utilità, e alcuni spiazzi che sembrano essere dei campi da calcetto o da basket, ma non attrezzati né per l'uno, né per l'altro.

A lato del cancello, campeggia uno striscione, con scritto: "Abbandonare un terreno è un reato, coltivare è una forma di coraggio."

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Ma, una volta entrati, lo scenario cambia decisamente.

"Abbiamo occupato quest'area - mi dice Bachcu - circa due mesi fa. Come vedi, non è un'occupazione per farne abitazioni o un centro sociale, ma uno spazio per coltivare, allevare piccoli animali da cortile, organizzare feste della nostra comunità, ma anche di altre, uno spazio dove le donne possano giocare a "gollasut", secondo le nostre tradizioni (lontano dagli occhi degli uomini, n.d.b.) e dove i ragazzi giocano a cricket (lo sport più diffuso in Bangladesh, n.d.b.), dove si proiettano i nostri film (produzione bolliwoodiana, ovviamente, n.d.b.). Qui, vengono organizzate delle visite per i bambini che non hanno mai visto una gallina, una papera, una pianta di peperoncino o di zucchine.
Lo abbiamo ripulito, ma, come vedi, c'è ancora molto lavoro da fare."









Prima di entrare nel vivo della descrizione di quello che vogliamo raccontare, è opportuno dire brevemente in cosa consiste l'area di cui stiamo parlando.

E' un'area dove le Ferrovie dello Stato dovevano realizzare un progetto di compensazione, avendovi costruito la linea dell'alta velocità. Dopo poco tempo e un intervento molto limitato, dovuto probabilmente alla scarsa attrazione che esercita, l'area è stata abbandonata nel 2010. Da circa due mesi, l'Associazione Dhuumcatu ha deciso di utilizzarla, con l'unico fine di renderla fruibile a tutti coloro che possano esserne interessati.



Tra questi, anche un gruppo che vuole attivare una palestra popolare e che fa capo a Giancarlo, un ex pugile, che vi allena una gruppo di giovani, prevalentemente italiani. E poi, senegalesi, marocchini, che usano l'area per organizzare feste, dato che lo spazio è ampio e difficilmente qualcuno potrà lamentarsi del rumore, visto che gli esseri umani più vicini sono quelli ospitati nel cimitero del Verano, che, in linea d'aria, dista non più di cinquecento metri.


L'interesse del quartiere nei confronti di questa iniziativa si declina in diversi modi: c'è chi ha chiesto, e subito ottenuto, un pezzetto di terra per coltivare qualche ortaggio,  come un signore che incontriamo insieme al nipotino, c'è chi viene solo per chiacchierare, ma soprattutto si è manifestato nei primi giorni del "recupero" dell'area (così preferiscono definire l'azione i promotori dell'iniziativa), quando alcuni abitanti delle aree circostanti hanno portato quello che hanno creduto più utile per sostenere l'iniziativa.


Ma quello che realmente è stato utile per l'avvio del recupero dell'area è la disponibilità da parte di molti a farsi carico di presenziare giorno e notte lì, ripulire gli spazi verdi e i campetti asfaltati, costruire alcune tettoie. Il seguito è rappresentato da coltivazioni molto curate, allevamento di galline, anatre, capre, organizzazione di vari eventi, tra cui l'organizzazione di partite di cricket.



"La cosa più importante, a questo riguardo, - dice Bachcu - è la presenza di ragazzi bangladesi, indiani e pakistani, tutti appassionati di cricket, e se si conosce la storia dei nostri paesi (caratterizzata da uno dei conflitti più lunghi, sanguinosi e fratricidi del dopoguerra, n.d.b.) è evidente l'importanza di questo evento".

"Le donne del quartiere, in larghissima parte bangladesi, ma non solo, usano lo spazio per incontrarsi, organizzare giochi, senza correre il rischio di subire scippi, aggressioni. Abbiamo anche montato un palco, che vogliamo utilizzare in futuro per altri eventi di questo tipo".




L'esperienza di Via Ettore Fieramosca, al di là del recupero, sacrosanto, di un'area abbandonata, indica in maniera inequivocabile che l'incontro tra comunità, straniere e autoctona, passa attraverso esperienze concrete, dove alcuni elementi costituiscono il fattore comune di stili di vita, abitudini, culture di per sé differenti, ma che si incontrano sulla necessità di soddisfare alcuni bisogni, individuali, collettivi, comunitari, e lì trovano uno spazio e un agire comune.
Il risultato, questo sì, per davvero, è un autentico bene comune.